Olio ‘tar-truffato’, danno incalcolabile alla nostra olivicoltura

Agroalimentare

di Giuliano Incerpi

Fabrizio Filippi, il presidente del Consorzio dell’Olio Extravergine Toscano IGP, ci va giù duro. In un intervista rilasciata ad Alberto Grimelli di Teatro Naturale, uno dei più autorevoli siti online, non ha usato mezzi termini per dire che occorre “Tolleranza zero nei confronti di frodatori e contraffattori che macchiano l’immagine e la credibilità dell’olio extra vergine di oliva Toscano.”

Lo dice, all’indomani dell’ennesima retata del Corpo Forestale dello Stato e della Repressione Frodi,  in cui sono stati coinvolti ben  47 operatori fra  commercianti e titolari di frantoi di Grosseto, Firenze, Arezzo, Siena e Foggia, con l’accusa di aver commercializzato come olio IGP Toscano olio che invece proveniva dalla Grecia e dalla Puglia.

E’ una attività che configura il reato di truffa e contraffazione che da tempo immemorabile fa danni incalcolabili all’immagine  dei prodotti di eccellenza dell’agroalimentare italiano.

Il caso del vino al metanolo, di ormai tre decenni fa, mise a tappetto una delle nostre maggiori produzioni apprezzate in tutto il mondo. Per recuperare, i nostri viticoltori hanno dovuto penare per anni e impegnarsi per recuperare mercati e fatturati che all’epoca ci voltarono immediatamente le spalle.

Oggi si rischia lo stesso con l’olio extravergine d’oliva di qualità, che finalmente sta conquistando mercati e prezzi di tutto rispetto, ma che soprattutto può permettere a un settore, quello dell’olivicoltura, di non disperdere competenze e patrimonio arboreo che è elemento essenziale del nostro paesaggio.

Proprio per questo, lItalian sounding e soprattutto il Tuscan sounding vengono strumentalizzati da operatori di pochi scrupoli, che spesso dietro un marchio italiano o toscano rifilano un prodotto di qualità spesso meno che ordinaria e soprattutto di provenienza dubbia. Tanto per dare qualche informazione, alcune fra  le nostre più importanti aziende olearie, dai nomi e dalle località altisonanti, sono in mano a società che spesso privilegiano interessi diversi da quelli del paese che li ospita, il nostro.

Lo ricorda puntualmente Tom Muller, un giornalista americano che risiede in Liguria, che ha girato il globo in lungo e in largo alla ricerca dell’olio extravergine di qualità e alla scoperta delle tante tantissime frodi. Sua ultima fatica “Extraverginità“. Secondo lui, per quel che riguarda l’Italia, “Capita addirittura che elementi del Ministero dell’Agricoltura, che dovrebbe difendere i produttori di qualità in Italia, assecondino progetti che – a suo avviso – potrebbero danneggiarli profondamente.”

E’ la solita storia. “O Francia o Spagna”, purché se magna…”

La Coldiretti ha promosso addirittura una Commissione Antifrodi, presieduta dal Giudice Caselli, il cui vicepresidente Stefano Masini ribadisce che “l’origine geografica dei prodotti alimentari riveste un’importanza strategica per il nostro Paese di grandissimo valore economico e culturale”.

Casa su cui si dibatte da sempre. Anche per l’olivicoltura italiana. Almeno due e alternative le posizioni. Quella produttivistica e quella orientata alla qualità. La seconda – sulla scena del mercato mondiale dell’olio – è marginale. L’olio d’oliva di qualità (DOP e IGP) rappresenta pochi punti percentuali, in gran parte frutto della cultura e della passione degli olivicoltori toscani. Significativo il confronto fra due addetti ai lavori, Luigi Caricato e Marco Oreggia.

Secondo Caricato, “La biodiversità è un valore inestimabile, ma ciò non significa che non si debba lavorare su nuove varietà destinate a diventare anche queste autoctone. Se ci pensiamo, il germoplasma delle altre epoche non coincide con quello attuale. Ciò sta a significare che vi è l’esigenza di lavorare sul nostro patrimonio genetico, individuando nuove cultivar di olivi, facendo ricerca, studiando nuove vie, così come avviene in frutticoltura”. E ancora: “Non possiamo limitarci a produrre olio solo in Italia. Se si è per davvero grandi pionieri, allora occorre produrre olio anche all’estero, in altri Paesi. Conta l’imprinting italiano”.

Oreggia, dal canto suo, ricorda che occorre puntare sulla qualità, che aumenta la richiesta di eccellenza. Noi siamo in grado di farlo, a differenza dei paesi competitor, che non hanno la ricchezza di cultivar di cui disponiamo  noi in Italia (circa seicento, di cui 80 solo in Toscana, di cui ben 13 – le principali – anche garantite all’origine).  E “Reimpiantare qualcosa di nuovo, ringiovanire gli uliveti esistenti, riorganizzare tutti gli impianti dispersi. Cominciare insomma a fare ordine; non prendersi in giro con i dati fasulli della produzione, non giova a nessuno; importare di meno: lo scorso anno abbiamo prodotto 380 mila tonnellate ed importato 481 mila tonnellate”.

Ma anche – per Oreggia – etichette più chiare, che consentano al consumatore di sapere dove nasce l’olio che acquista. “Rimane il problema della tracciabilità di origine ed il problema deriva proprio dalla Comunità Europea che tende a far “diminuire” la necessità di scrivere l’origine”. Infine, “puntare sugli oli certificati. Oggi sono solo il 3 per cento, una piccola goccia in un mare. Di questi, il 50 per cento è toscano. I costi di certificazione rimangono altissimi ed i produttori stessi non ci credono, perché tutti continuano a fare il finto Made in Italy. Così, però, si è depotenziato un investimento che era costato tantissimo al nostro Paese”.

E allora, oggi che con l’analisi del DNA, si può stabilire addirittura con quali olive (singolo cultivar, specifico clone, singola pianta e quindi provenienza territoriale) è stato prodotto l’olio di oliva che abbiamo appena acquistato, oggi che abbiamo in produzione impianti in superintensivo con nostre varietà che producono olii eccellenti, oggi che la tecnologia ci mette a disposizione macchinari adatti a gestire impianti moderni anche con varietà dei nostri disciplinari,  lo vogliamo fare questo passo avanti che indubitabilmente serve a riposizionare il nostro olio di qualità su livelli che nessun altro al mondo può contenderci?

A fatica, abbiamo prodotto il nostro primo, timido, piano olivicolo nazionale, abbiamo capito che per un olio a tre-quattro euro al chilo non si può pretendere un buon olio d’oliva italiano, soprattutto dopo che bottiglie a marchio toscano (solo di nome) spuntano prezzi paragonabili a quelli dei nostri vini di qualità; ci siamo indignati per l’aumento dei quantitativi d’importazione di prodotto dalla Tunisia, che va ad aggiungersi alle centinaia di navi cisterna cariche di olio di dubbia provenienza e vergognosa qualità  che intasano i nostri porti (soprattutto liguri e toscani). Insomma, dopo tutte queste riprove, la vogliamo dare un impronta seria, innovativa nella tradizione, di qualità? Le esperienze e le competenze ce le abbiamo, la tecnologia pure (i frantoi italiani vengono impiantati in tutto il mondo) e la ricerca anche. Cosa aspettiamo, la prossima retata di frodi?

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